lunedì 6 aprile 2020

Io e la musicoterapia. Preludio.





Per me la musicoterapia è una storia di incontri e di suoni.
Tutta la mia formazione fino ad oggi, è stata così e, credo, lo sarà sempre.
Per primo l’incontro tra la musica e la terapia.
Terapia nella sua accezione più larga , che nel mio caso intende un processo di armonizzazione da collocarsi in un ambito vicino alla psicopedagogia.
Successivamente la storia dei singoli incontri, tra la mia musica e tantissime persone, i miei piccoli e grandi maestri.
Se mi fermo a pensare vedo scorrere infinite immagini, momenti di grazia, così li chiamo io, nei quali ho sentito forte, attraverso la musica, cuori e anime che hanno lasciato impronte indelebili.
Le prime immagini in assoluto hanno il nome di due ragazze: Lina e Caterina.
Era il 1995 e lavoravo come educatore professionale in un centro per disabili, molti dei quali non vedenti.
Vi siete mai chiesti come comunicare con una persona non vedente e gravemente compromessa dal punto di vista cognitivo?  Io non ci avevo mai pensato prima di allora, ma scoprirlo quanto prima era assolutamente necessario.
Quello che mi fu subito chiaro era come i codici, fino ad allora utilizzati per comunicare  , non fossero più adatti e che avrei dovuto cercare altre modalità.
Dunque….quali sarebbero stati i nuovi codici?
Il contatto? Sicuramente da usare con parsimonia per non risultare invadenti.  La sensibilità in certi contesti è altissima e la percezione amplifica qualsiasi azione proveniente dall’esterno.
Nell’atto di cura dell’altro, alcuni gesti vengono ripetuti a volte in modo automatico: il prendere le mani, guidare nel cammino, imboccare, lavare, aiutare ad alzarsi … renderli preziosi è un processo delicatissimo e complesso , da consacrare, ogni istante, sull’altare della quotidianità.
La parola? privata del suo significato diventa mero suono, un accompagnamento ai gesti che riteniamo necessario, rassicurante, più del silenzio, che esige confidenza e intesa per essere tollerato a lungo da entrambe le parti.
Lo sguardo? Cosa sa dello sguardo una persona non vedente? E di quelle qualità tattili, peculiari dello sguardo, che riconosciamo nella vita comune (lo sguardo che accarezza, che tocca… ) cosa rimane ? uno sguardo ti tocca ancora se non lo vedi ? E, se non l’hai mai visto, come puoi percepirlo?
Tante domande e poche risposte, ne ho ancora oggi, ma a quel tempo avevo poco più di vent’anni…. ero anche molto giovane.
Osservare, valutare, procedere empiricamente, avrei dovuto impegnarmi e farlo mentre ero intenta a compiere i gesti richiesti dal prendersi cura.
Che la musica potesse essere una strada me lo insegnò per prima Lina, quando, dopo pranzo, finita l’acqua nella bottiglia, iniziava a farla cadere sul tavolo, tante volte, cogliendo ogni rimbalzo, ma in un modo che oggi definirei, morbido e misurato. Non era un semplice gioco senso-motorio era qualcosa di più articolato, c’era una ricercatezza unica nei movimenti, io lo presagivo dallo sguardo estasiato e dalla minuzia con cui Lina soppesava la bottiglia trasparente (sulla quale spesso correva un raggio di sole) e ascoltava, con tutto il corpo, il suono prodotto dall’impatto con la superficie.
Aveva la concentrazione di uno scienziato, era un esploratore di fronte ad una nuova terra, un pittore davanti alla sua tela, una ballerina intenta a bilanciare gravità e muscoli per alzarsi sulle punte mantenendosi leggera come una piuma.
Quella musica che lei ricercava si nutriva dello stesso istinto creatore.
Quando rimanevamo sole, a volte lei, poggiava la mano sulla mia laringe, esternamente, “vuole che canti” mi dissero la prima volta e io, mentre cantavo, scoprivo la bellezza di diventare strumento musicale che vibra per qualcuno. La mia voce non era più solo la mia voce, era il suono della mia voce tenuta sul palmo della mano di Lina.  Una perla dentro l’ostrica, la perfezione del dono.
Poi c’era Caterina.
Caterina era molto silenziosa, non avevo mai sentito il suono della sua voce, né dei suoi passi leggeri, un corpo muto, questo mi pareva.
Riflettevo sul peso del portare il silenzio di un corpo. E di non lasciare tracce,udibili, al proprio passaggio.
Andò avanti così, per mesi, l’idea che avevo di lei, fino a quando, nell’ora di musica, non le fu dato un grosso Conga. Un corpo risonante, enorme, di fronte allo scricciolo che era, davanti a quel corpo che non lasciava tracce sonore. Senza vederlo, Caterina posò le mani sulla pelle dello strumento, in un movimento deciso che non ha bisogno degli occhi. Mani sulla pelle, ci penso ora, un contatto primordiale. Quindi il suono veloce, ritmato, forse un po' scomposto a tratti, ma pieno di gioia, un’ondata di gioia e VOCE.
Si! Caterina, suonando, usava la voce, un timbro scuro, fatto di suoni gutturali, profondi, come di viscere che sgorgano nella luce. Quindi il suono di un tamburo può dare voce, pensai.
Questa era la magia di Caterina.
Ed io avevo trovato così, con lei e con Lina la risposta alle mie domande, il suono è linguaggio, la musica una chiave espressiva e comunicativa. Per me fino ad allora era stata un piacevole passatempo. Divenne presto studio.
Avrei iniziato, da lì a poco, la mia formazione in musicoterapia.